Il Palazzo dei Conservatori

Cortile

II cortile del Palazzo dei Conservatori, sul cui lato destro si conserva la memoria degli archi ogivali che davano accesso alla sala dello “statuario”, ha sempre rappresentato, fin dalla prima formazione delle raccolte capitoline di antichità, il luogo privilegiato, una sorta di punto di attrazione per l’appropriazione e la conservazione della memoria dell’antico: le opere che via via affluivano nel palazzo erano i pegni della continuità culturale lasciati dal mondo antico, una sorta di ponte di collegamento virtuale con un passato glorioso.

Sul lato destro si trovano i frammenti della statua colossale marmorea di Costantino. Si tratta delle diverse parti – la testa, le mani, i piedi, parte delle braccia – della grande statua dell’imperatore, rinvenute nel 1486, sotto il pontificato di Innocenzo VIII, nell’abside occidentale della Basilica di Massenzio al Foro Romano, portata a termine da Costantino. La statua, che rappresentava l’imperatore seduto in trono, secondo un modello riferibile alle statue di Giove, era costruita con la tecnica dell’acrolito: solo le parti nude del corpo erano lavorate in marmo, mentre le altre parti erano costituite da una struttura portante, poi mascherata da panneggi in bronzo dorato o addirittura di stucco. La testa, imponente nelle sue misure, mostra i tratti del volto spiccatamente segnati: la datazione dell’opera oscilla tra il 313, anno della dedica della Basilica da parte di Costantino, e il 324, quando nei ritratti dell’imperatore comincia ad apparire il diadema, la cui presenza è suggerita da alcune tracce nel marmo.

Sul lato sinistro sono sistemati i rilievi con Province e trofei d’armi provenienti dal Tempio di Adriano a piazza di Pietra. Alcuni dei rilievi, contrassegnati dagli stemmi dei Conservatori, furono rinvenuti alla fine del XVI secolo, mentre gli altri vennero ritrovati, sempre nella stessa zona, a partire dal 1883.

La serie dei rilievi, che mostra le personificazioni delle diverse province assoggettate all’impero romano, riconoscibili dagli specifici attributi, era posta a decorazione del tempio dedicato nel 145 d.C. da Antonino Pio al suo predecessore e padre adottivo Adriano, divinizzato dopo la morte: la cura nei rapporti con le diverse province, che lo portarono a lunghi viaggi attraverso la sconfinata estensione dell’impero romano, fu una delle caratteristiche del regno di Adriano. Tutto il fianco destro del tempio, con 11 colonne scanalate sormontate da imponenti capitelli corinzi, si conserva in piazza di Pietra inglobato nel palazzo della Borsa.

Sul fondo del cortile, all’interno del portico costruito da Alessandro Specchi, appare il gruppo formato dalla statua seduta di Roma e dai due prigionieri in bigio morato, che Clemente XI acquistò nel 1720 dalla Collezione Cesi. Il gruppo, già composto in questa forma, venne riprodotto in antiche incisioni quando ancora si trovava nel giardino di casa Cesi, in Borgo. La figura centrale, che rappresenta una divinità seduta derivata da un modello della cerchia fidiaca, fu trasformata in Roma con l’aggiunta degli attributi tipici di questa personificazione; la statua poggia su una base decorata nella parte anteriore da un rilievo rappresentante una provincia assoggettata, proveniente probabilmente dalla decorazione di un arco del I secolo d.C. Le due figure colossali di barbari, le teste dei quali sono state aggiunte in epoca moderna, rese particolarmente preziose dall’uso del raro marmo bigio, possono essere avvicinate alla serie dei prigionieri Daci creata per la decorazione del Foro di Traiano.

Sala dei Fasti Moderni

Ritornati allo Scalone si imboccano le Sale dei Fasti Moderni, lungo le cui pareti sono disposte le iscrizioni che ricordano i nomi dei magistrati civici avvicendatisi nella guida di Roma a partire dal 1640. Dopo la coppia di statue degli Atleti di Velletri, copie romane da originali di IV secolo a.C., si può ammirare uno splendido sarcofago con scene dionisiache.

Qui Dioniso è semidisteso su un carro trainato da Centauri. Intorno a lui, tutti i personaggi appartenenti al suo mondo: Arianna, Pan, Satiri, Menadi partecipano alla festosa processione danzando e suonando. I temi dionisiaci sono tra i più popolari nel mondo romano perché i misteri legati alla mitologia del dio e l’ebbrezza suscitata dal vino contengono sottili ma indissolubili legami con il mondo dell’aldilà. L’accurato modellato delle figure è sottolineato dalla policromia ancora ben conservata.

Sala del Frontone

La sala ospita la ricostruzione del frontone in terracotta policroma di un tempio della metà del II secolo a.C., i cui frammenti furono rinvenuti alla fine dell’Ottocento in via di San Gregorio, nella valle tra Palatino e Celio, al di sotto di un strato contenente i detriti dell’incendio neroniano del 64 d.C.

Il tempio di pertinenza è stato ipoteticamente identificato, sulla base dell’interpretazione dell’iconografia, con quello della Fortuna Respiciens sul Palatino o con un tempio di Marte sul Celio. Costituisce l’esempio più completo di frontone chiuso in terracotta di età tardorepubblicana finora ritrovato a Roma.

Nel rilievo del timpano è raffigurata una scena di sacrificio celebrato alla presenza di Marte e due divinità femminili di controversa identificazione, una seduta su un’ara e l’altra stante e appoggiata a un pilastrino, da un offerente togato a cui sono condotti dalle due estremità del frontone sei animali da tre inservienti a torso nudo.

Una vivace policromia contraddistingueva tutte le figure, che risaltavano sul fondo dipinto in nero come in uno spazio vuoto. La rappresentazione era concepita per una visione dal basso: i vari elementi, modellati a mano, hanno una sporgenza crescente verso l’alto fino al tutto tondo della parte superiore dei personaggi.

Gli spioventi del tetto erano decorati in facciata da un’alta cornice variopinta, la sirna frontonale, costituita da lastre baccellate innestate sul bordo esterno delle tegole finali, alla cui sommità era sovrapposto un rilievo figurato di piccole dimensioni raffigurante la lotta di un giovane Eracle con un mostro marino per la liberazione di Esione, figlia del re di Troia Laomedonte e sorella di Priamo.

Sala degli Horti Tauriani e Vettiani

In età augustea, a quanto è possibile ricostruire dalle fonti e dalla documentazione epigrafica, l’intero territorio compreso tra la via Labicana antica, l’aggere serviano e il limite poi rappresentato dalle mura aureliane, fu occupato dagli Horti Tauriani, per un’estensione che è stata calcolata intorno ai 36 ettari; ai limiti della proprietà, e lungo il percorso della via Labicana, si trovava il sepolcreto di famiglia.

Forse è proprio per l’ampiezza della proprietà, per lo splendore della villa e per la vicinanza con la zona di ingresso a Roma di numerosi acquedotti – strategicamente molto delicata per la difesa della città – che gli Horti di Statilio Tauro suscitarono la cupidigia di Agrippina, moglie di Claudio, che istigò Tarquinio Prisco ad accusare il senatore prima di concussione e poi di pratiche magiche.

Tauro non aspettò il verdetto del Senato e preferì suicidarsi permettendo così all’imperatore di incamerare i suoi beni (53 d.C.). Dopo il passaggio della proprietà in mano imperiale essa fu di nuovo smembrata, in favore di Epaphrodito e Pallante (liberti rispettivamente di Claudio e Nerone), per poi in parte riconfluire sotto Gallieno (253-268 d.C.) negli Horti Liciniani.

Presso i confini occidentali dell’area furono rinvenuti i resti di un edificio che, attraverso i nomi scritti sulle fistulae aquariae, può essere riferito a Vettio Agorio Pretestato (praefectus Urbi del 367-368 d.C.) e a sua moglie Fabia Aconia Paulina.

Un muro trovato nell’area e costruito, come verificato in molti altri casi sull’Esquilino, con frammenti di sculture, ha restituito una straordinaria messe di materiali. Le sculture rinvenute in questa zona possono essere attribuite alle varie fasi di vita degli horti: nella Sala IV si ricordano soprattutto la splendida statua di Igea; per stile e dimensioni le può essere avvicinato il busto di divinità femminile, riconoscibile come Artemide, copia di un originale, attribuito a Kephisodotos, del IV secolo a.C. trovato nelle vicinanze e probabilmente facente parte dello stesso gruppo; simile nelle proporzioni anche una terza statua trovata nella stessa zona e trasformata, alla fine dell’Ottocento, in Roma Cristiana per decorare la sommità della torre capitolina.

Un’ambientazione all’interno di una residenza immersa nel verde sembra particolarmente appropriata per le opere esposte nella Sala V: la statua di mucca, forse parte di un gruppo pastorale, è probabilmente copia della famosissima statua in bronzo di uguale soggetto creata da Mirone per l’Acropoli di Atene e portata a Roma all’epoca di Vespasiano.

Ben inseribili nella decorazione di un giardino sono anche i rilievi: uno, particolarmente raffinato, rappresenta un paesaggio sacro con un santuario circondato da alte mura, mentre gli altri due, purtroppo frammentari, sono di manifattura neoattica e rappresentano le quadrighe di Helios (il sole) e Selene (la luna) che corrono una incontro all’altra.

Alla decorazione dei giardini della villa devono essere riferiti i due grandi crateri decorati rispettivamente con scene relative al mondo dionisiaco e con la raffigurazione delle nozze di Paride ed Elena, mentre alla fase imperiale degli horti devono essere attribuiti gli splendidi ritratti di Adriano, Sabina e Matidia, rinvenuti nella demolizione dei muri tardoantichi degli Horti Tauriani collocati in galleria.

Sala degli Horti Lamiani

“Ho visto una galleria di 79 metri di lunghezza, il cui pavimento era costituito dalle più rare e costose varietà di alabastro ed il soffitto sorretto da 20 colonne scanalate di giallo antico, poggiate su basi dorate; ho visto un altro ambiente, pavimentato con lastroni di occhio di pavone, le cui mura erano ricoperte da lastre di ardesia nera, decorate da graziosi arabeschi eseguiti in foglia d’oro; e ho visto infine una terza sala, il cui pavimento era composto da segmenti di alabastro incorniciati da paste vitree verdi.

Nelle pareti di essa erano tutt’intorno vari getti d’acqua distanti un metro l’uno dall’altro, che dovevano incrociarsi in varie guise, con straordinario effetto di luce. Tutte queste cose furono scoperte nel novembre del 1875.”

Così Rodolfo Lanciani descrive gli straordinari ritrovamenti effettuati sull’Esquilino, nella zona situata tra le attuali piazza Vittorio Emanuele e piazza Dante, e individuata, attraverso la lettura delle fonti letterarie, come pertinente agli antichi Horti Lamiani. Questa splendida villa era, in origine, proprietà di una famiglia, forse proveniente da Formia, che iniziò la sua scalata al potere politico e sociale a Roma con Lucio Elio Lamia e raggiunse l’apogeo con un suo nipote dallo stesso nome, console nel 3 d.C.

Come è accaduto per molti altri possedimenti della stessa zona risulta che ben presto, forse già sotto il principato di Tiberio, gli Horti Lamiani passarono nella proprietà imperiale. Sappiamo per certo, attraverso la testimonianza di Filone Alessandrino che li visitò nel 38 d.C., che Caligola vi abitò e realizzò una serie di interventi di restauro agli edifici esistenti nel parco e fece in modo che la dimora “diventasse ancora più splendida”.

Le strutture scoperte alla fine dell’Ottocento comprendono un grandioso ninfeo a forma di cavea teatrale affacciato su una valle, un lungo portico su cui si affacciavano ambienti decorati con pitture da giardino, e il magnifico complesso, descritto dalle parole di Lanciani, costituito dal lungo criptoportico e da una serie di ambienti a carattere termale: nulla di tutto ciò è più visibile, nascosto dalla città moderna.

Quello che rimane è lo straordinario apparato decorativo e scultoreo della villa rinvenuto negli scavi e oggi nuovamente esposto nelle sale del Palazzo dei Conservatori. Tra le opere più preziose alcuni originali greci esposti nella Sala I, frutto di un particolare gusto collezionistico e del costante riferimento da parte dei cólti romani alla cultura artistica di età classica: si tratta di due stele funerarie greche di epoche diverse e del gruppo dell’ “ephedrismós” che rappresenta due giovanette, una sulle spalle dell’altra, intente in un gioco.

Del magnifico pavimento di alabastro ”di Palombara” (così chiamato dai marmorari romani perché in questa zona, prima dell’urbanizzazione ottocentesca, si trovava la Villa Palombara), che decorava la galleria sotterranea lunga circa 80 metri, si conserva solo nella Sala II una piccola porzione rispetto all’estensione totale, che però riesce a rendere l’idea della sontuosità dell’arredo architettonico. Non lontano sono stati rinvenuti gli splendidi capitelli di lesena in opus sectile, dove, su una base di marmo rosso, i motivi decorativi sono ricavati con un prezioso intarsio di marmi colorati.

“Sull’angolo meridionale di piazza Vittorio Emanuele, nell’area degli antichi Horti Lamiani, sono apparsi a fior di terra avanzi di un mobile di legno incrostati di ornati di bronzo dorato, bucrani, encarpi, fusarole, candeliere, baccelli. In ciascuno degli ornati sono incastonate gemme come corniole, diaspri, ametiste, granate, onici, occhi di gatto, lapislazzuli. Alcune pietre, specialmente quelle a più strati, sono intagliate con figure di animali, busti virili, ecc. I piedi del mobile sono intagliati in cristallo di monte”.

Che si trattasse di un prezioso mobile fu il primo tentativo di interpretazione di questa ricchissima congerie di materiali preziosi che, a un computo preciso, annoverano: 296 lastrine di agata, 441 gemme tra sciolte ed incastonate, 28 frammenti di cristallo di rocca, 4 gemme incise, 3 lastrine di cristallo di rocca lavorate ad incavo, 40 frammenti di ambra, 1 frammento di piccola maschera in plasma di smeraldo, 1 piccola foglia in plasma di smeraldo, un numero imprecisato di lamine in rame dorato sia lisce che sbalzate a motivi decorativi, una grande quantità di chiodi, tubetti distanziatori, fascette e incastonature vuote.

In realtà siamo probabilmente di fronte ai frustuli della sontuosa e sgargiante decorazione di un ambiente le cui pareti, foderate di legno, erano rivestite da queste lamine di metallo dorato a formare disegni all’interno dei quali si inserivano le gemme e gli altri materiali ornamentali. L’effetto di questo ricchissimo apparato può trovare un riscontro nelle sontuose decorazioni che compaiono in pitture del II Stile pompeiano. Nel periodo di Natale del 1874 venne in luce una camera sotterranea nella quale era stato ricoverato, per difenderlo da qualche imminente pericolo, uno straordinario gruppo di sculture raccolto nella Sala III.

Venne così recuperata la bellissima Venere Esquilina, rappresentata nuda e colta nel gesto di legarsi i capelli preparandosi al bagno, accompagnata da due splendide figure di sacerdotesse o Muse che si avvicinano alla figura principale del gruppo per il trattamento delle superfici e per chiare analogie stilistiche, particolarmente evidenti nei volti dalle linee di contorno sfumate e dall’incarnato simile a porcellana.

Si tratta di opere della prima età imperiale, ispirate a modelli greci di epoche diverse, rispecchiando il gusto eclettico tipico dell’arte romana. Nello stesso luogo è stato rinvenuto anche il bellissimo gruppo scultoreo che rappresenta l’imperatore Commodo, rappresentato come Ercole ed affiancato da due creature marine, i Tritoni, in una complessa allegoria che simboleggia l’apoteosi dell’Imperatore in vita.

Per i suoi atteggiamenti “eccessivi” Commodo subì dopo la morte la damnatio memoriae, provvedimento che comportava la distruzione di tutte le immagini e di tutte le citazioni nelle iscrizioni ufficiali: forse proprio a questo dobbiamo l’occultamento e, di conseguenza, la conservazione delle preziosissime sculture.

Nello stesso ambiente fu rinvenuta anche la statua di Dioniso disteso probabilmente parte di un gruppo più ampio che doveva comprendere anche altri personaggi del corteggio del dio. Dall’area degli Horti Lamiani proviene la bellissima testa di un centauro e la statua di Diadumeno, raffinatissima copia di età romana di una famosa e celebrata statua di Policleto rappresentante un atleta che si unge.

Galleria degli Horti Lamiani

La fortunatissima stagione che per l’archeologia romana ebbe inizio nel 1870 con la proclamazione di Roma Capitale d’Italia permise di esplorare intere zone della città in maniera sistematica: certo si trattava di scavi finalizzati alla costruzione di quartieri residenziali oppure dei grandi edifici destinati ad accogliere le sedi dei Ministeri e quindi necessariamente difficili ed affrettati.

Ciononostante il Quirinale, il Viminale e l’ Esquilino, poli dell’espansione urbanistica di fine secolo, restituirono una tale messe di materiali e di dati topografici da costituire un intero Museo e da rappresentare materiale di studio per intere generazioni di archeologi.

Queste zone della città rappresentavano infatti un fecondissimo terreno di ricerca perché, pur essendo contigue al centro storico, mostravano, prima dei grandi cambiamenti, un impianto edilizio estremamente rarefatto, caratterizzato da ville con vasti giardini, vigne, orti: si andava quindi a esplorare un terreno vergine, non sconvolto, come nel resto della città, dall’ininterrotto succederei delle fasi abitative.

La supervisione dei lavori di scavo in queste zone fu affidata, per competenza territoriale, alla Commissione Archeologica Comunale: per questo motivo le raccolte archeologiche capitoline si sono arricchite di una straordinaria documentazione su un fenomeno urbanistico, al confine tra la sfera pubblica e quella privata, situabile cronologicamente tra la fine della repubblica e l’inizio dell’età imperiale.

Si tratta degli “horti”, cioè di complessi residenziali immersi nel verde, caratterizzati da uno spettacolare apparato decorativo, nati ai margini del centro monumentale come prestigiose dimore delle più illustri famiglie gentilizie della tarda repubblica e poi passati a far parte delle proprietà imperiali.

Nella prima età imperiale gli horti costituivano una ininterrotta corona di verde intorno al centro della città, non diversamente dalle ville gentilizie della Roma moderna: proprio la situazione che i lavori edilizi di fine Ottocento andavano gravemente compromettendo. Le cronache dell’epoca riportano i numeri delle scoperte avvenute durante i lavori: “705 anfore con importanti iscrizioni; 2360 lucerne di terracotta; 1824 iscrizioni scolpite nel marmo o nella pietra; 77 colonne di marmi rari; 313 pezzi di colonne; 157 capitelli di marmo; 118 basi; 590 opere d’arte di terracotta; 405 opere d’arte in bronzo; 711 tra gemme, pietre incise e cammei; 18 sarcofagi di marmo; 152 bassorilievi; 192 statue di marmo in buone condizioni; 21 figure di animali in marmo; 266 busti e teste; 54 pitture in mosaico policromo; 47 oggetti d’oro e 39 d’argento; 36679 monete d’oro, d’argento e di bronzo; e una quasi incredibile quantità di piccole reliquie di terracotta, osso, vetro, smalto, piombo, avorio, bronzo, rame, stucco”.

Per ospitare le sculture di maggior prestigio rinvenute in quegli anni fu creata da Virginio Vespignani, all’interno di un cortile scoperto del Palazzo dei Conservatori, la cosiddetta Sala Ottagona, un padiglione in legno dalle eleganti decorazioni, che fu inaugurato nel 1876, pochi anni dopo l’inizio degli scavi.

Al momento della sua apertura la sala conteneva 133 statue ma, nei 27 anni della sua esistenza e fino alla demolizione nel 1903, il padiglione di Vespignani accolse un numero sempre maggiore di opere che venivano restaurate ed esposte man mano che i lavori di esplorazione procedevano e sempre nuove sculture venivano alla luce.

Nel 1903 il Museo del Palazzo dei Conservatori conquistò nuovi spazi adiacenti al giardino interno che aveva ospitato la Sala Ottagona e un nuovo allestimento delle opere, suddivise secondo la loro provenienza, fu curato da Rodolfo Lanciani, grande personaggio dell’archeologia romana dell’epoca.

Oggi molte di quelle opere tornano nelle stesse sale con un nuovo allestimento che mette in evidenza la preziosità dei marmi e la qualità artistica delle statue antiche rispettando, nello stesso tempo, le scelte museografiche di quella originaria sistemazione.

Sala degli Horti Mecenaziani

II primo a colonizzare l’Esquilino come sede di residenze di lusso fu, secondo le fonti letterarie, Mecenate, amico e consigliere di Augusto, il quale portò a termine la bonifica della zona precedentemente occupata da un millenario sepolcreto con un’operazione urbanistica celebrata dal poeta Grazio.

L’area dell’antica necropoli esquilina fu infatti ricoperta da uno spesso interro, che consentì di trasformare una zona malfamata in un’area residenziale di straordinario prestigio.

Della sontuosa dimora, fatta costruire nella seconda metà del I secolo a.C. da questo illustre personaggio amico e consigliere di Augusto, gli scavi ottocenteschi hanno messo in luce pochi resti: l’unico ambiente attualmente conservato è il cosiddetto Auditorium, probabilmente un triclinio estivo semiipogeo e decorato da affreschi riferibili a due fasi: la prima del 40 a.C., attribuibile allo stesso Mecenate, e la seconda del primo decennio d.C. quando la villa era già passata sotto la proprietà imperiale.

Gli affreschi, purtroppo mal conservati, rappresentano vedute di giardini nei quali sono inserire piccole sculture e fontanelle, quasi a voler annullare la mancanza di aperture sull’esterno della grande sala.

In età neroniana la villa che si estendeva a cavallo delle mura serviane, evidentemente non più funzionali alla difesa della città, costituì una sorta di continuazione dell’immensa estensione territoriale occupata dalla Domus Aurea.

E così il Palazzo imperiale sempre più simile alle regge dei sovrani ellenistici, amplificava gli spazi a sua disposizione “specializzando” i diversi nuclei edilizi a seconda della loro funzione: la zona del Palatino destinata a sede di rappresentanza, i settori dell’Oppio e dell’Esquilino connotati come ville di piacere.

Famosa la battuta che circolava a Roma dopo la costruzione della Domus Aurea e riportata da Svetonio: “Roma diverrà la sua casa: migrate a Veio, Romani, ammesso che questa casa non inglobi anche Veio!”. Da una torre situata nella zona più elevata degli Horti di Mecenate, sembra, Nerone assistette allo spettacolo dell’incendio di Roma.

Estremamente problematica risulta la ricostruzione dell’apparato decorativo di questa residenza, dal momento che la maggior parte delle sculture emerse dagli scavi era stata reimpiegata come materiale da costruzione in murature tardoantiche o altomedievali.

Particolarmente significativo, considerati gli interessi del padrone di casa, appare il ritrovamento in questa zona di una serie di erme con ritratti attribuibili a personaggi della cerchia letteraria ed esposti nella Sala VI: una presenza di grande rilievo in connessione con l’attività di Mecenate, noto come protettore delle aiti, e soprattutto in relazione a quanto ci tramandano le fonti letterarie sull’arredo scultoreo delle case dei personaggi più in vista.

Nella casa di un intellettuale (come nel caso di Mecenate) o di un aspirante tale, non poteva infatti mancare una biblioteca, decorata dalle immagini dei più famosi letterati greci e latini. Nel programma decorativo di questa residenza immersa nel verde ben si inseriscono i piccoli rilievi con scene idilliche e il raffinatissimo esempio di arte neoattica rappresentato dalla fontana a forma di rhytón (corno) firmata dall’artista Pontios, che trova un immediato riscontro tematico nel bellissimo rilievo con Menade danzante, replica neoattica del donario votivo coregico per le Baccanti di Euripide creato da Kallimachos nel 406-405 a.C.

Il programma decorativo scultoreo degli horti comprendeva anche opere di straordinario impegno artistico come quelle esposte nella Sala VI; tra di esse la testa di Amazzone, copia da un famosissimo originale greco del V secolo a.C., e la bellissima statua di Marsia in marmo pavonazzetto capolavoro di virtuosismo scultoreo.

Dalla zona degli horti dell’Esquilino proviene anche il gruppo scultoreo dell’Auriga collocato nella Sala VII che, solo a seguito di una recente analisi, ha riacquistato il suo significato originario. Lo studio stilistico e interpretativo ha infatti permesso di riaccostare le due figure dell’auriga e del cavallo che, rinvenute ad una certa distanza una dall’altra negli scavi della fine del secolo scorso, erano state musealizzate separatamente senza riconoscerne la reciproca appartenenza.

Il cavallo, ridotto in frammenti, fu rinvenuto infatti nel 1873 nello smontaggio di un muro tardoantico in corrispondenza della zona occupata dagli Horti di Mecenate.

Area del Tempio di Guiove Capitolino

Nella più antica storia di Roma il VI secolo a.C. corrisponde al regno della dinastia etrusca dei Tarquini, periodo contraddistinto dall’espansione della città e del suo dominio nel Lazio e dalla realizzazione di importanti opere di edilizia pubblica. Tarquinio Prisco (616-578 a.C.), quinto re di Roma e primo della dinastia etrusca, durante una battaglia contro i Sabini votò un tempio a Giove Ottimo Massimo, Giunone e Minerva in cambio della vittoria.

Iniziò così la sistemazione dell’area prescelta sul Monte Tarpeo facendo spianare la cima occidentale del colle e facendovi costruire mura di contenimento. Il figlio Tarquinio il Superbo riprese il progetto interrotto ma non riuscì a completarlo perché scacciato da Roma in seguito a una rivolta popolare contro la monarchia; il tempio venne così dedicato nel primo anno della repubblica romana, il 13 settembre del 509 a.C., dal console Orazio Pulvillo. Gli storici riferiscono che nell’area destinata al tempio già esistevano piccoli edifici di culto.

Furono pertanto interrogate dagli auguri le rispettive divinità e quasi tutte acconsentirono allo spostamento del sacello a loro dedicato: soltanto Terminus e Juventas si rifiutarono e i loro altari rimasero inglobati all’interno del nuovo tempio. Tra le varie leggende legate alla costruzione del tempio si tramanda anche che durante lo scavo delle fondazioni del nuovo edificio venne trovato un cranio umano perfettamente conservato e da questo prodigio si capì che il colle, chiamato da allora Capitolium, sarebbe diventato il centro del potere imperiale di Roma.

Il Tempio di Giove, Giunone e Minerva, collocato in posizione dominante, si qualifica come il santuario delle divinità protettrici della città e come tale doveva essere percepito sia dalla vicina Etruria, sia dai popoli latini che avevano il proprio comune centro religioso nel santuario di Iuppiter Latiaris sul Monte Cavo.

Del grande edificio voluto dai Tarquini rimane solo parte delle imponenti strutture di fondazione in blocchi di cappellaccio. Sistematicamente distrutto in età post-antica e utilizzato come cava di materiali pregiati, il tempio stupisce ancora oggi per le sue straordinarie dimensioni, anche se non se ne conservano purtroppo né l’alzato né la ricca decorazione architettonica. Esso perì nel I secolo a.C. in seguito a un violento incendio (83 a.C.) e sappiamo che fu ricostruito sulle medesime fondazioni e con le stesse misure di quello arcaico, utilizzando, secondo una fonte letteraria, le colonne in marmo pentelico sottratte all’Olympieion di Atene.

In mancanza di elementi certi, risultano dunque preziose al fine della ricostruzione del primo edificio sia la descrizione che ne fa Dionigi di Alicarnasso, sia i commenti dell’architetto Vitruvio. Il tempio era costruito sopra un altissimo podio ed era lungo circa 200 piedi (ossia 60 metri); la larghezza era di poco inferiore alla lunghezza; era rivolto a Sud e presentava tre file di colonne sulla fronte e una su ciascun lato. Aveva tre celle parallele, separate da muri ma coperte da uno stesso tetto: quella centrale dedicata a Giove, le laterali a Giunone e Minerva.

Il pavimento dell’edificio templare, assai più alto dell’attuale piano di calpestio dell’area museale, si trovava all’incirca all’altezza dell’attuale terrazza Caffarelli. Vitruvio aggiunge che le colonne erano molto distanti tra loro: si trattava dunque di un tempio aerostilo. Questa caratteristica, tipica dei templi tuscanici, non consentiva l’uso di architravi di pietra, che sarebbero risultati troppo pesanti per una luce tanto larga, ma solo di legno.

In effetti gli intercolumni ricostruibili sulla base delle strutture conservate misurano m 12,50 quello centrale e m 8 quelli laterali. Le dimensioni colossali del tempio capitolino (m 62 x 54) vengono apprezzate al meglio se confrontate con quelle dei templi coevi: per esempio il Tempio dell’Area Sacra del Foro Boario, che misurava m 10,60 x 10,60, quello di Portonaccio a Veio di m 18,50 x 18,50.

Da fonti storiche sappiamo che Tarquinio Prisco commissionò a Vulca, coroplasta di Veio, la statua di culto in terracotta dedicata a Giove. Il dio era rappresentato stante e con un fulmine nella mano destra; durante determinate festività il suo volto veniva colorato di rosso. Sempre ad artisti veienti fu commissionata la grande quadriga di terracotta che doveva sovrastare il tetto.

A proposito di quest’ultima si narra che, durante la cottura, invece di perdere acqua, il manufatto aumentò di volume tanto da spaccare il forno che la conteneva. Questo prodigio fu interpretato dai sacerdoti come presagio della futura potenza di Roma. Del tempio di età arcaica sono rimaste solo parti delle grandiose strutture di fondazione: l’edificio è stato completamente ricostruito per ben quattro volte in età romana; inoltre è noto dagli autori antichi che gli elementi decorativi rovinati o da sostituire, in quanto considerati sacri, venivano sepolti nelle paludi.

Per queste ragioni il suo apparato decorativo è ricostruibile solo sulla scorta del confronto con edifici coevi. Possiamo immaginare che le colonne fossero in tufo intonacato, che i muri delle celle e gli stipiti delle porte fossero decorati da lastre di argilla dipinta. Il tetto poi doveva presentare sulla fronte un timpano aperto, all’interno del quale si vedevano le testate del “columen” e dei “mutuli” coperte da lastre di terracotta variamente decorate.

Gli spioventi del tetto, come la sottostante tettoia, dovevano presentare lastre decorate con motivi floreali, palmette e fiori di loto alternati, sime e cortine traforate, mentre nei lati lunghi i margini del tetto erano decorate dalle antefisse forse a testa di Sileno e di Menade.

La storia del Tempio di Giove Capitolino è indissolubilmente intrecciata all’espansione dell’imperialismo romano: presso il santuario capitolino si svolgevano i riti che precedevano la partenza per le guerre di conquista, come pure al Tempio di Giove approdavano le processioni trionfali accordate dal Senato ai generali vittoriosi; esso divenne presto il simbolo della città di Roma e come tale fu riprodotto in tutte le nuove città fondate.

Collezione Castellani

Le Sale Castellani, poste alla fine del percorso museale che si snoda all’interno dell’Appartamento dei Conservatori, custodiscono una pregevole serie di materiali, che rappresentano il punto di arrivo della formazione delle collezioni storiche del Museo. Nell’ambito del loro straordinario patrimonio, infatti, i Musei Capitolini vantano due importanti collezioni di materiale archeologico, ambedue costituitesi nella seconda metà dell’Ottocento: la Collezione Castellani e la Collezione del Museo Artistico Industriale.

La Collezione Castellani ai Musei Capitolini

Gli oggetti esposti in queste due sale sono stati donati ai Musei Capitolini da Augusto Castellani, un noto orafo e collezionista vissuto a Roma nella seconda metà dell’Ottocento; egli fu un uomo di spicco nella vita amministrativa e culturale della città ricoprendo tra le altre cariche quella di direttore dei Musei Capitolini.

Egli incrementò le raccolte museali elargendo una prima ingente donazione nel 1867 seguita da una seconda, assai rilevante nel 1876. La prima donazione del 1867 è ricordata in una deliberazione nella quale la Romana Magistratura ringraziava il signor Augusto Castellani di aver fatto dono al Comune di “una raccolta di vasi tirreni” e decretava di coniare una medaglia che è oggi custodita presso il Medagliere Capitolino.

La seconda, del 1876, riguardò una vasta collezione di oggetti antichi che egli aveva depositato presso il Museo nell’arco di oltre un decennio: come apprendiamo dalla proposta di Giunta egli intese far dono di tutti i manufatti di sua proprietà alla sola condizione che rimanessero in perpetuo di proprietà comunale.

La Collezione del Museo Artistico Industriale

II museo, nato come Museo d’Arte Applicata all’Industria, fu ideato da alcuni importanti esponenti del panorama culturale della Roma ottocentesca quali il principe Baldassarre Odescalchi, Augusto Castellani e suo fratello Alessandro, che invitarono il municipio di Roma perché “prendesse l’iniziativa di fondare nella nostra città un’esposizione permanente di oggetti d’arte applicata all’industria” sul modello di quelle create a Parigi e a Londra.

La collezione archeologica custodita presso i Musei Capitolini rappresenta una parte esigua delle ampie raccolte del Museo Artistico Industriale il cui variegato patrimonio fu destinato, negli anni cinquanta del Novecento, a varie istituzioni museali romane. Tra i membri della Commissione Direttiva del Museo d’Arte Applicata all’Industria (Museo Artistico Industriale), Augusto e Alessandro Castellani furono tra i più attivi nel collezionare materiale di grande pregio per poi donarlo al Museo.

Sala Castellani I

La Collezione Castellani è costituita da circa 700 reperti provenienti dai più importanti siti archeologici dell’Etruria, del Lazio e della Magna Grecia e relativi a un arco cronologico che va dall’VIII al IV secolo a.C. Secondo un criterio tipicamente ottocentesco, Castellani suddivise i reperti per classi, senza conservare memoria delle eventuali associazioni tra gruppi di oggetti rinvenuti insieme e inoltre non volle trasmettere notizie particolarmente esaustive sulla provenienza dei materiali, talvolta ricostruibile attraverso la documentazione in nostro possesso. Le necropoli delle principali città etrusche (Veio, Cerveteri, Tarquinia e Vulci) furono le sue mete privilegiate alle quali aggiungere altri siti del Lazio quali Palestrina, i centri della Sabina, dell’agro Falisco (Civita Castellana) e ovviamente Roma.

Alessandro Castellani, che visse a lungo a Napoli, cedette inoltre al fratello molti materiali provenienti dai siti della Campania e dell’Italia Meridionale.

Riproponendo la suddivisione impostata da Castellani, nell’esposizione attuale sono state privilegiate le classi ceramiche sia quelle importate dalla Grecia (Sala I) che quelle prodotte localmente (Sala II). La quantità ma soprattutto la qualità del materiale esposto, permette di seguire lo sviluppo della produzione greca dall’VIII fino al IV secolo a.C. attraverso esemplari di notevole importanza e in ottimo stato di conservazione.

La ceramica prodotta a Corinto era presente in tutto il Mediterraneo a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo a.C. fino alla metà del VI secolo a.C. e doveva far parte dei beni voluttuari prodotti per classi privilegiate sia economicamente che socialmente. Nello stesso ambito cronologico si collocano le ceramiche greco-orientali prodotte nell’area della costa dell’Asia Minore e delle prospicienti isole greche quali Samo, Rodi e Chio e largamente esportate in Magna Grecia, in Sicilia e in Etruria, dove i contatti commerciali e artistici con il mondo greco-orientale ebbero importanti conseguenze condizionando gli sviluppi della produzione artigianale e artistica.

Ma, fra tutte, la classe ceramica maggiormente rappresentata è quella prodotta ad Atene dagli inizi del VI al IV secolo a.C., caratterizzata da un’argilla di colore rossastro su cui s’imposta una ricca decorazione figurata: dal tipo di tecnica con cui essa è resa la produzione si distingue in ceramica a figure nere e ceramica a figure rosse.

I vasi attici, restituitici per la gran parte dalle necropoli dell’Etruria costituiscono uno dei più sicuri strumenti per la ricostruzione della storia e della produzione artigianale e artistica non solo della civiltà greca ma anche di quelle che con essa erano attive nel bacino del Mediterraneo.

In particolare, in Etruria la presenza così massiccia di questi “vasi mercanzia” – alla metà del VI secolo a.C. una città come Vulci assorbiva una quantità di prodotti attici superiore a quella delle più grandi città greche – attribuisce a essi una serie di fondamentali valenze costituendo il principale veicolo di trasmissione delle iconografie elleniche e quindi delle conoscenze a esse connesse, come il mito e l’epos, che contribuirono, in modo determinante, al processo di acculturazione delle élites dominanti, committenti e acquirenti di questa merce.

Sempre in questa sala sono esposti, oltre a quelli attici, altri vasi a figure rosse ma di produzione apula e lucana realizzati nelle officine della Magna Grecia tra la fine del V ed il IV secolo a.C.

Sala Castellani II

In questa sala, continuando a seguire la suddivisione impostata da Castellani, sono esposte le ceramiche prodotte localmente in ambito etrusco-laziale. Purtroppo ancor più che per la ceramica greca, Castellani evitò di menzionare i luoghi di provenienza esatti o le eventuali associazioni, e solo grazie a studi recenti compiuti su queste classi di materiali, è possibile individuare, con un buon margine di certezza, alcuni centri di produzione.

La ceramica di impasto e il bucchero esposti in questa sala sono due produzioni tipiche dell’area etrusco-laziale in parte contemporanee e correlate (VII-VI secolo a.C.). Per ceramica di impasto si intende una ceramica prodotta con un amalgama di argilla e frammenti microscopici di minerali, gli inclusi, presenti in maggiore o minore concentrazione. La lavorazione era inizialmente a mano poi sostituita nel periodo in questione dal tornio, che rendeva le pareti degli oggetti più sottili e la cottura più omogenea.

I principali tipi di impasti attestati in quest’area sono rappresentati dall’impasto bruno, dall’impasto bruno sottile e dall’impasto rosso; la superficie era lisciata e lucidata e arricchita con varie tecniche decorative che comprendevano l’incisione, l’excisione, la stampigliatura e la dipintura; in alcuni casi vi era anche la decorazione plastica rappresentata da piccole figure o teste di animali impostate sulla sommità di anse, di orli o come presa di coperchi.

Il grosso della produzione di ceramica d’impasto era costituito da vasellame da mensa, da cucina e da dispensa, come i “pithoi” che servivano a conservare le derrate alimentari; sempre in impasto erano realizzati elementi dell’arredo domestico come i grandi sostegni per reggere le olle o i bracieri per riscaldare gli ambienti. Il bucchero era anch’esso una ceramica di impasto, ma a differenza dei precedenti, molto più raffinato: l’argilla era depurata, gli inclusi minutissimi e la lavorazione eseguita esclusivamente al tornio; il colore nero, omogeneo, era dovuto, con ogni probabilità, a una cottura perfetta in ambiente ricco di ossido ferrico.

Le pareti, inizialmente di spessore molto sottile, si andarono appesantendo nel corso dei decenni; la superficie, lucente, veniva decorata sia a incisione che a rilievo e con aggiunte plastiche. Per quanto riguarda le forme, la maggior parte di esse riprendevano la produzione degli impasti, come per esempio il kantharos, il calice o l’attingitoio, mentre un gruppo quantitativamente minore, riprendeva quelli della ceramica importata dalla Grecia, come nel caso dello “skyphos”, della “kotyle” e dell’ “olpe”; in alcuni casi, inoltre, possiamo ipotizzare una derivazione da oggetti in materiale prezioso quale ad esempio l’avorio o il bronzo.

Nei corredi tombali la quantità di buccheri è di poco superiore a quella della ceramica greca e inferiore alla ceramica di impasto, il che indica che essi venivano considerati vasellame pregiato; studi recenti hanno inoltre messo in evidenza come questa ceramica fosse deposta nelle sepolture non singolarmente quanto piuttosto composta “in servizi” sia da mensa che da toeletta.

Un ultimo aspetto di grande interesse riguarda la massiccia esportazione di buccheri dagli insediamenti dell’Etruria centro-meridionale verso i mercati di tutto il Mediterraneo: nelle località occidentali gli esemplari esportati si misurano nell’ordine di migliaia spesso associati con anfore che contenevano vino. In questa stessa sala sono anche esposte le ceramiche dipinte e figurate di produzione etrusca: con il nome di etrusco-geometrica si intende una classe di ceramica dipinta nata a imitazione dei prodotti greci che si diffusero in Etruria dalla prima metà dell’VIII secolo a.C. Questi manufatti erano realizzati in argilla depurata lavorata al tornio e dipinta con motivi ornamentali a strisce orizzontali, a scacchiere e losanghe, a riquadri metopali nei quali erano racchiuse figure di animali quali uccelli e cavalli.

Un’altra importante classe di ceramica dipinta prodotta in Etruria è quella denominata etrusco-corinzia con cui si intende la ceramica realizzata in Etruria a imitazione di quella corinzia e prodotta, soprattutto nei centri dell’Etruria meridionale e marittima, per quasi un secolo, a cominciare dall’ultimo trentennio del VII secolo a.C. fino all’ultimo trentennio del VI secolo a.C. La ceramica etrusca a figure nere, sostituendosi alla ceramica etrusco-corinzia, cominciò a essere prodotta alla metà del VI secolo a.C. in un momento in cui l’obiettivo principale della cultura etrusca era quello di divulgare l’epos e il mito greci giunti in Etruria attraverso la ceramica importata.

Nell’ambito della produzione a figure nere sono state individuate molte botteghe e pittori operanti nei maggiori centri etruschi in un periodo che va dalla metà del VI alla metà del V secolo a.C. La ceramica etrusca a figure rosse ebbe inizio nel corso del V secolo a.C., sotto l’influsso della produzione attica a figure rosse. Fu una produzione numericamente molto consistente con botteghe che realizzarono esemplari di pregio ma che conobbe, ben presto, una forte standardizzazione. In questa sala è esposta una limitata selezione di reperti archeologici inerenti le collezioni del Museo Artistico Industriale.

Si tratta di reperti di pregio di produzione attica a figure nere, a figure rosse, a fondo bianco; di produzione laconica e apula. Un altro aspetto del collezionismo ottocentesco a Roma è rappresentato da un solo oggetto di grande rilevanza: l’oinochoe di Tragliatella rinvenuta durante scavi condotti presso il lago di Bracciano nel territorio dell’antica Cerveteri e donata ai Musei Capitolini, nel 1964, in ricordo di Tommaso Tittoni.

Si tratta di un’opera etrusco corinzia, del Gruppo dei Vasi Policromi, databile nell’ultimo trentennio del VII secolo a.C. L’oinochoe, policroma, presenta una ricca decorazione incisa su tre registri che è stata variamente spiegata: sembra tuttavia che la storia sia riferibile alla saga di Teseo e Arianna reinterpretata a uso e consumo del committente etrusco.

Al di là delle diverse esegesi possibili l’aspetto più rilevante è senza dubbio quello dell’arrivo del mito greco in Etruria e con esso di stili di vita, di derivazione greca, che vennero fatti propri dalla classe aristocratica favorendo quel processo di acculturazione ed ellenizzazione che i principes volevano avviare. Della Collezione Castellani fanno parte anche altri manufatti particolarmente prestigiosi tra i quali la tensa in bronzo esposta nella sala successiva.

Questa, che figura nell’elenco della seconda donazione (1876) come ”Tensa o biga in bronzo dal territorio romano, sito incerto”, fu acquistata, ridotta in minuti frammenti, da Augusto che, con l’aiuto del figlio Alfredo, operò un complesso restauro restituendo un manufatto ricostruito con scelte totalmente soggettive anche riunendo parti di oggetti differenti.

Scalone

Sul primo ripiano dello Scalone, che, prima della costruzione della Pinacoteca, si presentava come un cortiletto scoperto, sono murati dal 1572-1573 quattro grandi rilievi storici provenienti da importanti monumenti pubblici.

I primi tre, giunti in Campidoglio già nel 1515 dalla chiesa dei Santi Luca e Martina, fanno parte di una serie di undici pannelli, otto dei quali reimpiegati per la decorazione dell’Arco di Costantino.

La loro collocazione originaria può essere attribuita a monumenti ufficiali dedicati a Marco Aurelio tra il 176 e il 180 d.C.

Il quarto rilievo, proveniente da un monumento dedicato ad Adriano e rinvenuto presso piazza Sciarra, fu acquistato dai Conservatori nel 1573 per completare il ciclo decorativo.

Salendo la scala, sulla destra, si trova il pannello raffigurante Marco Aurelio che sacrifica davanti al Tempio di Giove Capitolino.

L’imperatore è raffigurato con il capo velato, mentre versa incenso su un tripode: accanto a lui il camillo, giovinetto assistente ai sacrifici, un flamen, riconoscibile dal caratteristico copricapo, e il vittimario, pronto a sacrificare il toro che compare alle spalle del gruppo.

La scena si svolge davanti al Tempio di Giove Capitolino, qui in una delle raffigurazioni più dettagliate (anche se per problemi di spazio il tempio è raffigurato con quattro colonne anziché sei), con la triade capitolina raffigurata nel frontone e la quadriga a coronamento del tetto.

Il secondo rilievo rappresenta una scena di trionfo: l’imperatore, togato e alla guida di un carro trainato da quattro cavalli, si accinge a passare, sotto un arco di trionfo.

Lo precedono un littore e un tibicine, mentre alle sue spalle una piccola figura di Vittoria alata incorona il generale vincitore.

Sulla stessa parete è posto il rilievo raffigurante la clemenza imperiale: Marco Aurelio a cavallo, vestito in abiti militari con corazza e paludamentum si accinge, con il braccio destro sollevato, a esercitare la sua clemenza nei confronti di due barbari inginocchiati in segno di sottomissione.

L’atteggiamento dell’imperatore mostra notevoli assonanze con quello della grande statua bronzea della piazza, sebbene in questo caso Marco Aurelio sia rappresentato in abiti civili.

Il quarto pannello, proveniente da un monumento eretto in onore di Adriano, mostra l’imperatore al suo ingresso in città (adventus) accolto dal Genio del Senato e dal Genio del Popolo Romano e dalla dea Roma, caratterizzata da una corta tunica che le lascia scoperta la spalla destra e dal capo sormontato da un elmo piumato.

Sala degli Orazi e Curiazi

Nella grande sala, che assunse le dimensioni attuali in seguito alla ristrutturazione michelangiolesca del palazzo, si riuniva il Consiglio Pubblico; essa è tuttora sede di importanti cerimonie: si ricorda qui la firma del Trattato di Roma del 1956, atto primo e fondante dell’Unione Europea. Nel 1595 venne commissionato al pittore Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d’Arpino, l’esecuzione del nuovo ciclo di affreschi in sostituzione del precedente, in gran parte ormai perso.

Il Cesari, che vi lavorò con l’aiuto della sua bottega, concepì il ciclo come arazzi stesi lungo le pareti: nei lati corti una pesante tenda rossa, trattenuta da Telamoni, ricade sulle scene; nei lati lunghi i diversi episodi sono divisi da fasce verticali decorate con splendidi festoni di frutta e fiori, trofei di armi e vasi lustrali; alla base corre un fregio di finto marmo con medaglioni monocromi che raffigurano episodi di storia romana in relazione con il tema dell’affresco sovrastante.

Il Cavalier d’Arpino, rifacendosi alle storie della nascita di Roma e dei primi re narrate dallo storico romano Tito Livio nei suoi “Ab urbe condita libri”, eseguì in diversi momenti gli episodi del Ritrovamento della Lupa (1595-1596), della Battaglia contro i Veienti e i Fidenati (1598-1601), del Combattimento degli Orazi e Curiazi (1612-1613).

Al termine dell’esecuzione di questi primi affreschi i lavori conobbero una lunga interruzione e vennero ripresi solo nel 1636 per concludersi nel 1640, con l’esecuzione degli ultimi tre episodi: il Ratto delle Sabine, Numa Pompilio istituisce il culto delle vestali e Romolo traccia il solco della città quadrata. Nella sala, fin dal secondo decennio del XVI secolo, furono collocate statue di Pontefici, evidente segno del riconoscimento dell’autorità papale. Alcune di queste sono state allontanate per le alterne vicende storiche.

Tuttora vi si trovano due magnifiche sculture, una in marmo raffigurante Urbano VIII Barberini (1623-1644), opera eseguita da Gian Lorenzo Bernini e aiuti tra il 1635 e il 1640, l’altra realizzata in bronzo da Alessandro Algardi in onore di Innocenzo X Pamphilj (1644-1655) tra il 1646 e il 1650.

Nel 1643, ultimo anno del pontificato di papa Barberini, la sala fu completata con tre porte in noce intagliato, con stemmi e grandi formelle quadrangolari raffiguranti scene allegoriche ed episodi leggendari della fondazione di Roma e della prima età regia, attribuite agli scultori e intagliatori Giovan Battista Olivieri e Giovanni Maria Giorgetti.

Sala delle Oche

La sala prende il nome dalle piccole opere in bronzo, acquistate dal pontefice Benedetto XIII dai Certosini di Santa Maria degli Angeli e donate ai Conservatori nel 1727. Il gruppo di opere, inserito in una preziosa cornice architettonica in stucco che ricorda il nome del donatore, fu evidentemente messo in relazione con la leggenda che volle il Campidoglio salvato dall’invasione gallica del 390 a.C. proprio da un gruppo di a
oche che diedero l’allarme.

Particolarmente interessante è il pezzo centrale, un vaso bronzeo configurato come busto di Iside, dove sono rappresentati con notevole dettaglio i gioielli che ornano la figura della divinità di origine egiziana.

La sala presenta una gradevole unità decorativa, recuperata in seguito ai recenti interventi che hanno liberato il soffitto cinquecentesco dalle pesanti sovrastrutture e ridipinture. E stato così possibile restituire al cassettonato la coloritura ”color dell’aria” rinvenuta nei fondi su cui sono posizionati ornati dorati di pregevole fattura, rosoni di diversa forma, vasi lustrali, scudi. Le coloriture rinvenute ben si armonizzano con i vivaci colori del fregio ove eleganti elementi decorativi, alternandosi a trofei di fiori, frutta e armi, inquadrano scene di antichi giochi sullo sfondo di paesaggi ora reali, ora fantastici.

Tra questi, la veduta della piazza del Campidoglio prima degli interventi promossi da Paolo III Farnese (1534-1549), con la fedele riproduzione della chiesa dell’Aracoeli. In mancanza di documenti, l’affresco viene datato per la presenza in uno scudo del giglio di giustizia, impresa di Paolo III. Esso è stato variamente attribuito; si ricorda qui la più recente proposta nell’ambito della cerchia di artisti fiamminghi attivi a Roma nel terzo e quarto decennio del XVI secolo.

Nel Settecento la sala fu arricchita da ornati in stucco dorato che accolgono alcune opere concesse in dono al Campidoglio o inquadrano altre già da tempo in questo ambiente, come il dipinto La sacra famiglia, copia da Francesco Penni. Fin dalla sua donazione al Campidoglio (1731) è conservata in questa sala, posta sull’antica base, la Medusa, scultura ormai riconosciuta unanimemente, pur con diverse datazioni, di mano di Bernini. Ugualmente nel Settecento si fece dono al Campidoglio di un ritratto di Michelangelo, opera in bronzo su busto in marmo bigio.